N'DJAMENA
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“Et il ne suffit pas d’eteindre la race des Princes régnants, parce qu’il reste dans le pays une infinité de grands seigneurs qu’on ne peut ni détruire, ni contenter, et qui sont toujours prets à se mettre à la tete des rebelles, en sorte qu’à la première occasion, ils vous mettent en risque de perdre tout ce que vous avez gagné”
Niccolò Macchiavelli, “Le Prince”
Andiamo in direzione della capitale da cui siamo partiti due mesi e mezzo fa per arrivare a sud del paese. La strada del ritorno non è mai quella dell’andata, e questo è tanto più vero in questo caso. In aprile era tutto coperto d’ocra, la terra era un cretto, l’aria polverosa, i buoi smagriti, i dromedari ruminavano non si sa cosa e il cielo e la luce erano filtrati dalla sabbia.
Ora lo stesso deserto è vellutato d’erba, pieno di campi, l’argilla impermeabile è coperta da grandi stagni pieni d’aironi, i marigot scorrono tra le risaie allagate portando via di tutto, e la gente cammina numerosa per l’unica strada.
Gli alberi della savana a questa latitudine restano bassi e stremati dall’inclemenza di quasi tutti i mesi e dei continui tagli, non ci ricordano quelli della nostra brousse; ma presto, sopra Bonghor, lasciano il posto alle foreste di palme, qui la gente si scolora e gli arabi cavalcano i lenti dromedari che sono numerosissimi, e in realtà è un altro paese. Percorriamo questa interminabile e ingannevole strada che sembra di mare tagliando la pianura infinita da un lato e dall’altro. Seguiamo il Logone fino allo sbocco sullo Chari, il fiume che (non) alimenta il lago Tchad, e qui è N’Djamena.
La cittą dal ponte sullo Chari.
N’Djamena non è cambiata in niente, è sempre caldissima e polverosa. Le piogge le hanno portato solo delle grandi pozze che l’appestano colme di putredine, così com’è priva di drenaggio. La cosa buona di questa città è che non ha niente, proprio niente di bello, sfiorando in questo un apice tanto arduo quanto sublime.
Una passeggiata notturna dona il senso dell’irrealtà. Nel quartiere di Kabalay, da via Bokassa, non c’è illuminazione. Nonostante in città esista un ministero del petrolio, uno dei non molti edifici a superare il secondo piano, pare esserci energia sufficiente per illuminare fiocamente ben poche strade, e soprattutto quelle del mercato (attivo anche la notte) e quelle attorno al palazzo del presidente. Il resto è al buio, eppure migliaia di cittadini percorrono le strade illuminate solo dai fari delle auto e delle moto che contornano le figure umane nell’atto di alzare polvere ad ogni passo, ma dove questi dannati vadano così al buio non è dato sapere, ne come facciano a non cadere dentro a un qualche buco colmo di spazzatura.
In realtà non è così incomprensibile, la luce non c’è e la gente si adatta.
Del resto la città non è loro, è del Presidente e quando il Presidente difende se stesso difende anche la città, i segni della sua difesa di febbraio durante l’ultima battaglia sono molteplici e sanno di qualcosa di medievale: il taglio degli alberi monumentali tra il Palazzo e la cattedrale (hanno avuto la colpa di dar riparo ai ribelli), il fossato scavato in tutto l’arco ad est della città per frenare la loro avanzata, le torrette per le milizie; e i soprusi dei soldati sulla popolazione per mantenere il sacro rispetto e l’ordine, le parate, il tappeto rosso e gli alzabandiera che immobilizzano come in un incantesimo tutta la circolazione quando sono in atto. Noi visitatori non siamo estranei a questi fatti. Ed è un piacere giovanilista che fa sorridere la ragione pensare che ora da qualche parte esistano “i ribelli” che fanno tanta paura al Presidente. Non si può però scordare che all’epoca della sua salita al potere l’attuale Presidente era uno di questi stessi ribelli, che ha deposto il precedente dittatore arrivando dalle stesse strade da cui arrivano questi e usando le medesime parole di libertà e lo stesso bisogno di liberazione. Ma ora la città, il paese, il Presidente si stanno avvicinando al loro ventennio e grazie all’aiuto francese, i militari armati sono ovunque a difendere la pace.
Ne ho visti due piccoli e magri, armati e col basco fermare svogliatamente le moto di passaggio, controllare sommariamente le dotazioni e i documenti in mezzo alla strada per poi “liberare” i conducenti con una frustata sulla schiena.
Naturalmente fare qualsiasi foto è vietato.
L'ingresso del palazzo della Signoria, preso in corsa.
Il calmaggiore con l'arco della cattedrale.
Uomini che si divertono con una scimmia di cittą.
L'altro paese, il pił vasto. Sulla via del ritorno.
La solita strada di casa.
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