Patria, tra Tchad e Chile.
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“Nelle tenebre sopravvenute dopo la morte di Cristo, la tradizione ebraico-cristiana ha suscitato intuizioni totalmente capovolgenti simili a quelle espresse da Tartaglia. Jacopone da Todi ha detto che “La superbia in cielo s’ene, dannase l’umilitate”. Rabbì Maharàl di Praga ha detto che Dio prega. Shabbetày Tzevì ha concepito l’apostasia del Messia. Tommaso Campanella ha concepito l’“impotentia Dei”. Sestov ha preteso che Dio faccia sì che il passato non sia quello che è stato. I chassidìm si sono sforzati di essere allegri e ballare e cantare per consolare Dio che soffre. Tutto questo, per l’automatismo fatale della moneta cattiva che scaccia quella buona, è stato seppellito.”
Sergio Quinzio, “Ferdinando Tartaglia e la profezia del «puro dopo»”
Tre mesi di attesa e di preparazione alla partenza e permanenza in Cile, fatti di gatti incidentati da curare, studio accurato e visite di e ad amici. Nient'altro mi pare. Un Totò Merùmeni più vecchio e un po' meno arido, che pensa a Dio.
Un lori grida dalla gabbia nella tenuta di Alessandro. Luogo d'anime urlanti e di arte che non tradisce.
È venuto a trovarmi un artista che non conoscevo, aveva saputo di me e voleva annusarmi, cercava un odore che non voglio avere più e che non ho mai avuto. Tanta cordiale salute alle tue ambizioni amico mio tenuto a bada da pesantissime, presunte catene all'arte, ho tanto contento e tanta pena per la tua penna; pena di pena a pena. Andato via tu continuerò a tagliar l’erba.
2009
MARZO'09
FEBBRAIO'09
GENNAIO'09
2008
2007
Se questo spazio deve agire come supporto alla mia fragile e trasformante memoria non posso evitare di mettere l'immagine confusa di questo gatto, di quando ancora, in questo stesso aprile, stava bene.
(Fintina, finto, finzione. Qualunque azione serve solo per confermare o contraddire questo dato preliminare, questa petizione di principio. Non ne varrà la pena, la Moira ha segnato in anticipo la mia argilla come ha voluto, io mi affanno nei miei giorni a disegnare sull’acqua.
Come sia il disegno che già c’è, sento che ho trascurato gli amici, deluso i parenti, confuso i fratelli, e non sono stato ne figlio, ne studente, ne scultore, ne teatrante, ne filosofo, ne furbo, ne disonesto, ne fallito...)
"Allo spirito che si orienta verso la nudità ripugnano le parvenze che gli ricordano questo mondo dal quale si vuole separato. Prova soltanto esasperazione davanti ciò che esiste o sembra esistere. Più si distoglierà dalle apparenze e meno avrà bisogno dei segni che le esaltano o dei simulacra che le denunciano, gli uni e gli altri egualmente nefasti per la ricerca di ciò che importa, di ciò che si sottrae, di quell fondo ultimo che esige – per essere còlto – la rovina di ogni imagine, anche spirituale.
Privilegio maledetto dell’uomo esteriore, l’immagine, per quanto pura sia, conserva una traccia di materialità, qualcosa di rugoso e, poichè rinvia fatalmente al mondo, conserva per ciò stesso un elemento d’incertezza e di perturbamento. Soltanto attraverso una vittoria su di essa ci si potrà avviare verso l’essere nudo, verso quella sicurezza senza legami che si chiama liberazione. Liberarsi, in verità, equivale a spogliare l’immagine, a svestirsi di tutti I simboli di quaggiù.
Ci si affranca dall’immagine soltanto se, con uno stesso movimento, ci si affranca dalla parola. Ogni parola equivale a una lordura, ogni parola è un attentato alla purezza. «Nessuna parola può sperare altro che la propria sconfitta» proclama Gregorio Palamàs nella Difesa dei santi esicasti. Al fondo che sta al di là delle apparenze non si accede se non in virtù del silenzio, quell silenzio che Serafino di Sarov diceva che rendeva l’uomo simile agli angeli.
Fatto degno di nota: non c’è silenzio frivolo, silenzio superficiale. Quando lo si assapora, si conosce automaticamente una sorta di supremazia, una strana sovanità. È possible che ciò che si designa con interiorità non sia nient’altro che un’attesa muta. Perciò, non c’è «vita vera» o, semplicemente, vita spirituale che non implichi la morte dell’immagine o della parola, la distruzione – nel più profondo dell’essere – di questo mondo e di tutti I mondi. L’esperienza mistica, al suo limite estremo, si identifica con la beatitudine di un supreme rifiuto.
Perseguire, cercare l’immagine, dimostra che si è rimasti al di qua dell’assoluto e che si è inadatti alla visione pura. Ciò si capisce, dato che questa visione non è tanto senza oggetto quanto al di là di ogni oggetto. Si potrebbe anzi dire che ciò che essa ci permette di vedere è l’assenza senza confini di tutto ciò che può essere visto, la nudità come tale, il vuoto come pienezza o, meglio, quell’«abisso della sovraessenza» celebrato da Ruysbroek.
Fra tutti coloro che cercano, soltanto il mistico ha trovato, ma, prezzo di un favore così eccezionale, non potrà mai dire che cosa, benchè egli abbia la certezza che conferisce unicamente il sapere incomunicabile (il vero sapere insomma). La strada sulla quale egli vi inviterà a seguirlo sbocca su una vacuità senza uguali ma, ed è questa la meraviglia, una vacuità che vi colma, poichè si sostituisce a tutti gli universi aboliti. Ciò di cui si tratta in questo caso è un’impresa, la più radicale che sia stata tentata, per ancorarsi in qualcosa di più puro dell’essere o dell’assenza dell’essere, in qualcosa di superiore a tutto, perfino all’assoluto.
Il sapere attinto alle apparenze è un falso sapere o, se si preferisce, un non sapere. Per il mistico la conoscenza nel senso vero, nel senso ultimo della parola, si riduce a un’ignoranza illuminata, a un’ ignoranza «transluminosa». Coloro che vivono nella pratica di questa ignoranza e della luce divina percepiscono in se stessi, dice ancora Ruysbroek, qualcosa come una «solitudine devastata».
Partendo da questa solitudine si comprenderà facilmente la necessità, l’urgenza del deserto, spazio propizio alla fuga verso l’assenza di immagini, verso una spoliazione inaudita, verso l’unità nuda, verso la Deità piuttosto che verso Dio. «La Deità e Dio» afferma maister Eckhart «sono altrettanto separati quanto il cielo e la terra. Il cielo è a migliaia di leghe più in alto. Così la Deità in rapporto a Dio. Dio diviene e passa».
Limitarsi a Dio significa, come ha notato un commentatore, restare ai «margini dell’eternità», rendersi inadatti a penetrare nell’eternità stessa, alla quale si giunge soltanto elevandosi alla Deità. Ispirandosi sempre alla stessa «solitudine devastata», come non evocare quella oratio ignita, quella «preghiera di fuoco» della quale, secondo un Padre dei primi secoli, siamo capaci solo quando siamo talmente impregnati di una luce dall’alto che è impossibile servirsi ancora del linguaggio umano?"
Emile Cioran, "Contre l'image"
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