MAGGIO '09
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Comincia ora una fase matura di questo progetto fortemente incentrato sul lavoro d’équipe, ed è pur sempre un inizio, e all’inizio per prima cosa ci chiediamo (ancora una volta) cosa possiamo fare per competere o integrarci con l’approccio avuto finora. Come intenderanno i campesinos l'apertura al cambiamento di cui tanto parliamo in équipe? E come parlare, e cosa dire ancora di nuovo sull'agricoltura a loro che coltivano la terra da tutta la vita?
Il nostro apporto sarebbe, penso, poca cosa, se come équipe fornissimo solo soluzioni agro-forestali ragionevoli e i mezzi economici per realizzarle. La sfida, qui come era in Tchad, è quella di tentare un altro approccio, che finalmente non sia di tipo assistenzialista, ma che accompagni in altro modo chi vuole condividere una difficoltà alla pratica per uscirne. Restando in linea all'idea che la conduzione del processo in nessun punto s’imponga come soluzione, nella speranza di intravedere così qual è la vera fibra della vita comunitaria, che tipo di modello permette, come si possano affrontare i problemi fuori dal recinto della propria casa. Vedere qual’è la reale intenzione di spendersi in un impegno comune e finalmente quanto tutto questo sia realmente efficace nell’ottica della cooperazione.
Fortuna ha voluto che incontrassimo un’équipe curiosa, competente e aperta a questa idea. Sul campo alcuni problemi sorgono fin dai primi incontri; risulta evidente che alle riunioni partecipano per ora quasi solo donne e anziani, parte importante delle famiglie protagoniste, ma non la sola cui è indirizzato l’intervento. Pare che il soggetto sociale sfugga, che coloro a cui ci rivolgiamo non siano presenti o non partecipino.
In questi villaggi non si vedono quasi più i giovani, alcuni emigrati in città per studio o lavoro, altri a coltivare come “temporeros” i campi di altri, non hanno il tempo di partecipare ai nostri incontri.
Non è semplice arrivare a queste persone sempre in movimento, lontane per forza dai villaggi e dalla comunità.
Ci chiediamo se tra questi bassi monti della della costa cilena resteranno, a riscattare il patrimonio campesino solo i contadini più anziani, solo quelli la cui storia è già scritta nello spessore delle mani, oppure se è possibile che il processo s’inverta e che vivere qui sia un occasione anche per i figli dei figli.
La schietta coincidenza tra apparire e essere che si presume nella vita contadina si rivela qui come in Africa, come da noi, sempre qualcosa di molto più complesso. Si scopre presto che anche in questi villaggi esistono conflitti e divisioni; che vi è spesso sfiducia o mancanza di confidenza tra famiglie, motivi per mettere in discussione apertamente la vita comunitaria e la solidità sociale.
Mi sento abitato da due principali tensioni: una che cerca di consegnare qualcosa nelle mani di un altro, un'eredità o un ricordo vero e condivisibile; e un'altra che ha la natura dei sogni, che creano vive immagini di cui resta la sabbia di sculture frantumate nella clessidra di una testa, quando viene girata al risveglio. Questi sono regali sprecati, movimenti che pure furono veri e reali, di cui rimane appena la traccia di una sparizione.
Troppo mia è questa natura, mi è necessario, per motivi di salute, adoperarmi nel tentativo d'inaugurare l'altra, la prima tendenza.
E non finisce ancora questa epifania dell'inizio.
Cambiano le persone e le condizioni economiche. Cambia anche il paesaggio, ma via via che vado conoscendoli, avverto nei modi di fare di questi campesinos, nella loro gentilezza della festa e nel timbro della loro intelligenza, una somiglianza profonda con i contadini da cui mi portava in visita mio padre da bambino; l’oscurità fresca e gli odori delle loro cucine, gli sgocciolii dei lavabi, le madonne di gesso, i crocefissi appesi, i cani confidenti, i giardini e gli orti. Ricordo anche di allora è la curiosità dei loro figli per il bambino che veniva dalla città e che parlava solo italiano… che si sentiva sempre fuori posto e a casa sua tra loro nelle campagne, che ora da noi non sono già quasi più.
Ora sono altri i contadini, ma la loro possibilità è sempre la mia, per concepire un’altra qualità di vita.
“Este es el paìs màs largo y angosto del mundo. Comienza donde hace bastante calor y termina donde la tierra està cubierta de hielo y nieve, o sea, en el Polo Sur. Esta parte del paìs se llama Antàrtica Chilena. En Chile se producen mucha madera, cobre, salitre y yodo. Los vinos chilenos son de los mejores del mundo. En este paìs no hay animales venenosos. Tiene montañas, bosques, rios, lagos y mucho mar. Las partes màs lindas de América se encuentran en el Sur de Chile.”
Silabario Hispano Americano
Campesino a Camarico.
In un ristorante a Linares.
Entriamo come un piatto atteso in una tavola in cui era già ben avviato un lavoro di ricognizione e catalogazione di uomini, donne e famiglie, entriamo in un progetto condotto fino ad ottobre da un mago, che ne ha preparato il terreno a suo modo, e poi dall'équipe attuale. Questa è un'altra occasione straordinaria che abbiamo nello sforzo infinito di cercare di comprendere gli uomini; così come in altro tempo sognavo di comprendere il classico dell’arte in tutte le culture. Cercare la radice comune, nella speranza di trovare la vena lungo cui risalire, senza approfittare, senza sprecare.
Sono lontanissimo dal raggiungere un obiettivo ma ora dico che più importante è il viaggio.
La città è Curicò, città dove abbiamo una sede, un ufficio e una casa, dista circa 80 km dai primi villaggi lungo il corso del Mataquito. È una città in espansione, piena di negozi, supermercati, centri residenziali di case basse tutte uguali e di servizi, la sua piazza d’armi - tutte le città qui ne hanno una - è un quadrilatero di palme enormi. Lontano, nelle giornate limpide si vedono le cime mozze di alti vulcani.
La maggior parte del piano intorno è coltivato a vigneti, rossi e gialli in questo mese, vigneti per vini famosi dove gran parte dei curicani – anche cittadini – lavorano.
In pochi kilometri, andando verso il mare, si passa da una pianura fertile e coltivata estensivamente al secano dei colli della cordigliera della costa, dove una vegetazione d’espino e cactus si adatta all’ambiente semiarido. Qui gli huasos in poncho e sombrero passano a cavallo spartendo la strada con auto e camion, qui comincia il territorio dei “nostri” villaggi campesinos, dove i contadini di terra povera, spesso non di proprietà, sono in eterna lotta con la siccità e con le pietre che rotolano negli orti.
Il Mataquito scende all’oceano tra questi rilievi, è un fiume la cui fisionomia somiglia a quella del Piave, anche i suoi pioppi, la sua aridità e le sue pietre, non però la ricchezza che permette. È un fiume che ogni anno puntualmente si arrabbia e tracima, impetuoso esonda dal suo letto e invade i campi circostanti portando loro le sue pietre. È un fiume avaro che scorre per sé solo, a cui l’acqua bisogna strapparla. Quando gli tocca sfociare nel Pacifico corre a lungo lungo la costa per resistere fino all’ultimo all’oceano e restare aggrappato al Cile, allora si fa abitare da gabbiani e pellicani. Bellissimo, il Mataquito.
Sono lontanissimo dal raggiungere un obiettivo ma ora dico che più importante è il viaggio.
La città è Curicò, città dove abbiamo una sede, un ufficio e una casa, dista circa 80 km dai primi villaggi lungo il corso del Mataquito. È una città in espansione, piena di negozi, supermercati, centri residenziali di case basse tutte uguali e di servizi, la sua piazza d’armi - tutte le città qui ne hanno una - è un quadrilatero di palme enormi. Lontano, nelle giornate limpide si vedono le cime mozze di alti vulcani.
La maggior parte del piano intorno è coltivato a vigneti, rossi e gialli in questo mese, vigneti per vini famosi dove gran parte dei curicani – anche cittadini – lavorano.
In pochi kilometri, andando verso il mare, si passa da una pianura fertile e coltivata estensivamente al secano dei colli della cordigliera della costa, dove una vegetazione d’espino e cactus si adatta all’ambiente semiarido. Qui gli huasos in poncho e sombrero passano a cavallo spartendo la strada con auto e camion, qui comincia il territorio dei “nostri” villaggi campesinos, dove i contadini di terra povera, spesso non di proprietà, sono in eterna lotta con la siccità e con le pietre che rotolano negli orti.
Il Mataquito scende all’oceano tra questi rilievi, è un fiume la cui fisionomia somiglia a quella del Piave, anche i suoi pioppi, la sua aridità e le sue pietre, non però la ricchezza che permette. È un fiume che ogni anno puntualmente si arrabbia e tracima, impetuoso esonda dal suo letto e invade i campi circostanti portando loro le sue pietre. È un fiume avaro che scorre per sé solo, a cui l’acqua bisogna strapparla. Quando gli tocca sfociare nel Pacifico corre a lungo lungo la costa per resistere fino all’ultimo all’oceano e restare aggrappato al Cile, allora si fa abitare da gabbiani e pellicani. Bellissimo, il Mataquito.
Comincia ora una fase matura di questo progetto fortemente incentrato sul lavoro d’équipe, ed è pur sempre un inizio, e all’inizio per prima cosa ci chiediamo (ancora una volta) cosa possiamo fare per competere o integrarci con l’approccio avuto finora. Come intenderanno i campesinos l'apertura al cambiamento di cui tanto parliamo in équipe? E come parlare, e cosa dire ancora di nuovo sull'agricoltura a loro che coltivano la terra da tutta la vita?
Il nostro apporto sarebbe, penso, poca cosa, se come équipe fornissimo solo soluzioni agro-forestali ragionevoli e i mezzi economici per realizzarle. La sfida, qui come era in Tchad, è quella di tentare un altro approccio, che finalmente non sia di tipo assistenzialista, ma che accompagni in altro modo chi vuole condividere una difficoltà alla pratica per uscirne. Restando in linea all'idea che la conduzione del processo in nessun punto s’imponga come soluzione, nella speranza di intravedere così qual è la vera fibra della vita comunitaria, che tipo di modello permette, come si possano affrontare i problemi fuori dal recinto della propria casa. Vedere qual’è la reale intenzione di spendersi in un impegno comune e finalmente quanto tutto questo sia realmente efficace nell’ottica della cooperazione.
Jocelyn, Stefano, Manuel, Simona ed io.
Non è semplice arrivare a queste persone sempre in movimento, lontane per forza dai villaggi e dalla comunità.
Ci chiediamo se tra questi bassi monti della della costa cilena resteranno, a riscattare il patrimonio campesino solo i contadini più anziani, solo quelli la cui storia è già scritta nello spessore delle mani, oppure se è possibile che il processo s’inverta e che vivere qui sia un occasione anche per i figli dei figli.
La schietta coincidenza tra apparire e essere che si presume nella vita contadina si rivela qui come in Africa, come da noi, sempre qualcosa di molto più complesso. Si scopre presto che anche in questi villaggi esistono conflitti e divisioni; che vi è spesso sfiducia o mancanza di confidenza tra famiglie, motivi per mettere in discussione apertamente la vita comunitaria e la solidità sociale.
Mi sento abitato da due principali tensioni: una che cerca di consegnare qualcosa nelle mani di un altro, un'eredità o un ricordo vero e condivisibile; e un'altra che ha la natura dei sogni, che creano vive immagini di cui resta la sabbia di sculture frantumate nella clessidra di una testa, quando viene girata al risveglio. Questi sono regali sprecati, movimenti che pure furono veri e reali, di cui rimane appena la traccia di una sparizione.
Troppo mia è questa natura, mi è necessario, per motivi di salute, adoperarmi nel tentativo d'inaugurare l'altra, la prima tendenza.
E non finisce ancora questa epifania dell'inizio.
Cambiano le persone e le condizioni economiche. Cambia anche il paesaggio, ma via via che vado conoscendoli, avverto nei modi di fare di questi campesinos, nella loro gentilezza della festa e nel timbro della loro intelligenza, una somiglianza profonda con i contadini da cui mi portava in visita mio padre da bambino; l’oscurità fresca e gli odori delle loro cucine, gli sgocciolii dei lavabi, le madonne di gesso, i crocefissi appesi, i cani confidenti, i giardini e gli orti. Ricordo anche di allora è la curiosità dei loro figli per il bambino che veniva dalla città e che parlava solo italiano… che si sentiva sempre fuori posto e a casa sua tra loro nelle campagne, che ora da noi non sono già quasi più.
Ora sono altri i contadini, ma la loro possibilità è sempre la mia, per concepire un’altra qualità di vita.
"Mi interés por las aves me abriò los ojos al mundo, y entonces la geografìa dejò de ser abstracta para ser el marco que regìa la existencia de las diferentes aves. A medida que aprendìa sobre las aves, aprendìas sobre las criaturas exòticas (por lo menos para un niño en Canadà) como el còndor o el albatros real, y que estas aves fantàsticas se encontraban en Chile"
Àlvaro Jaramillo, "Aves de Chile"
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