GIUGNO '09
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* VALPARAISO *
* Sette Tazze *
MARZO'09
FEBBRAIO'09
GENNAIO'09
2008
2007
Dopo lunghe discussioni cominciamo in questo mese i laboratori di “empowerment”.
Jocelyn introduce a Camarico il tema della negoziazione. Sembra che in queste comunità campesine il terreno sia buono ma sappiamo che non si può dire, che tutta è da fare ancora, la lotta con l’angelo.
Parlo a lungo con la signora Margherita, che mi racconta della sua famiglia, di suo marito che lavora come temporero in un altro villaggio, dei suoi figli che studiano o lavorano in città. Mi confida con serena lucidità che sa benissimo (che tutti sanno) che la sua comunità è destinata a morire con loro, gli ultimi vecchi, e poi chissà cosa sarà di Camarico, forse sarà altra terra per piantagioni di pino o eucalipto di qualche grande impresa forestale.
Mi dice che è già tanto se i suoi figli, tanto impegnati, vengono nel cerro a trovarla una volta l’anno.
Viene da pensare che stiamo accompagnando una specie in via d’estinzione verso la sua inevitabile fine, per la pendenza più lieve possibile.
Un’estinzione voluta e preparata da processi che passano molto al di sopra della loro e della nostra testa.
Ma non può essere così, davvero oggi non si può credere che una comunità possa morire. Certamente però può avvenire che la sua condizione cambi velocemente nel tempo e si tratterà allora di capire come cambia, se in meglio o in peggio; si tratta di capire quale grado di scelta abbia avuto la gente in questo cambiamento. E come aiutarla affinchè non resti invischiata troppo male nelle maglie di stravolgimenti dettati dall'alto: dalla moda, dalla storia.
Cercare di spiegare loro perché siamo qui, perché il “patrimonio campesino” sia tanto importante per noi è una sfida difficile, in fondo cosa c’entriamo? Ma queste persone adesso stanno con noi per il desarrollo e cercano di capire cosa possiamo darci reciprocamente, cercano di capire il senso di questo progetto tra cactus e spine, perchè abbiano cominciato a coinvolgerli e perchè ora cerchiamo di farli diventare protagonisti.
Ho anch’io il timore che il nostro gioco possa non “enganciare”, come dicono qui, ma non vedo alternative ne pericoli e soprattutto non mi attendo miracoli, siamo all’inizio di un processo durante il quale non va mai abbassata la guardia. Il suo senso starà in ciò che vedremo nascere tra queste comunità.
Nella bella cattedrale, a Santiago, abbozzo un aborto di preghiera che finisce con l’ammissione inutile della mia coglioneria: Cosa servirà ancora a togliermi la pena, pena di aver perso l’ultimo treno in una stazione sotto il sole, in cui non passano più treni. Niente bigliettai ne avvisi – rimanerne l’ultimo abitante: cane nero in una chiesa, che non sa pregare e aspetta il boccone. Mi distraggo subito dopo di fronte alla statua-reliquia di un s. Magrini martire, a cui faccio una foto.
Tutto come spesso accade nelle mie giornate, ha il sapore del sogno ricordato nell’ultima notte. Sogno ragionato e fissato già durante la veglia della prima insonnia. Questo è stato quello lunghissimo che termina con un bacio a mio fratello quando mi suscita il ricordo (nei sogni un ricordo accende tutta la realtà di un passato inventato) di aver stravolto in "magazzino" le rive di un mio laghetto gelato, per costruire una bellissima barca.
“El abate De Paw inventaba una América donde los indios degenerados alternaban con perros que no sabìan ladrar, vacas incomestibles y camellos impotentes. La América de Voltaire, habitada por indios perezosos y estùpidos, tenìa cerdos con ombligo a la espalda y leones calvos y cobardes. Bacon, De Maistre, Montesquieu, Hume y Bodin se negaron a reconocer como semejantes a los “hombres degradados” del Nuevo Mundo. Hegel hablò de la impotencia fisica y espiritual de América y dijo que los indìgenas habìan perecido al soplo de Europa.”
Eduardo Galeano, “Las venas abiertas de América Latina”
Amici a Talca.
Il più grande eroe mapuche si chiamò Lautaro, fu certamente il più grande tra i capi indios del Chile, seppe organizzare il suo popolo contro i conquistadores, vincendo e uccidendo il governatore Pedro de Valdivia, che fu il fondatore di Santiago.
Seppe far tesoro di quanto apprese come suo paggio durante i sei anni di prigionia in campo spagnolo: strategie di spionaggio, tattiche di guerra e uso delle armi e del cavallo che finalmente non sarebbe più stato considerato tutt’uno con il cavaliere.
Dopo una lunga serie di vittorie contro gli spagnoli, che giunse a far retrocedere fermandoli per due volte sulle rive del Bìo-Bìo, riuscì a risalire quasi fino Santiago nella sua marcia punitiva.
Ma fu proprio sulle rive del Mataquito, il nostro bel fiume malvagio, a pochi kilometri dai nostri villaggi, che Lautaro trovò la morte in un imboscata.
La sua testa in seguito fu esposta nella plaza de armas di Santiago piantata su di una pica spagnola.
I cileni considerano entrambi loro eroi, ma non sono due eroi che fanno un solo Chile, per motivi ed interessi opposti combatterono fino all’ultimo l’uno contro l’altro senza alcun tentativo o possibilità di accordo, di riscatto o di riconciliazione.
Molti cileni riconoscono oggi a Lautaro di essere stato l’eroe più grande, se ne ammira l’intelligenza strategica, e la grandezza del disegno che andava oltre alla resistenza. Ma il Chile è il risultato delle colonie che Lautaro scacciava, e che hanno avuto ragione anche del suo popolo, che pure ancora resiste.
Forse un giorno, quando queste tensioni interne si pacificheranno, anche le opposte prospettive convergeranno.
Chi oggi considererebbe come eroe della patria Annibale o Scipione? La loro guerra non ci scalda più gli occhi e resta per noi la libera immedesimazione al genio della storia.
In questo modo soltanto anche Lautaro e De Valdivia potranno avere, fare e dare pace.
Dicono che Lautaro morì proprio qui sul Chiripilco, un cerro lungo il Mataquito; e a Curicò in plaza de armas, c’è una potente e selvaggia scultura (ammirevole e stonata) che lo ritrae nell’unico ceppo di un albero morto, e in alcun modo sembra partecipare della piazza in cui è posta.
Nella plaza de armas di Santiago, perfettamente a casa sua, c’è invece quella in bronzo di Pedro de Valdivia a cavallo.
Lautaro entra nella storia che scrivono i vincitori perché fu tanto valente da combatterli per il suo popolo e non abbastanza per batterli. I suoi discendenti pagano ancora nelle riserve e negli umili impieghi lo scotto dell’onorevole sconfitta. Una sconfitta che per quanto onorevole, nella storia scritta si accenta sempre su sconfitta. E come sconfitta continua.
Non più per vendetta ma per esercizio del mantenimento del potere.
Un venditore di ninnoli mapuche a Valparaiso ci racconta di come gli invasori, prima spagnoli, poi cileni li abbiano sempre ingannati, emarginati e sfruttati. Non raggiungeranno mai l’indipendenza nelle loro terre, non gli sarà mai più permesso di seppellire i loro morti dove e come vogliono, e per sempre gli saranno stati tolti i loro beni e i loro eroi, a maggior gloria del Chile.
È una storia eterna, già letta tante volte da averla quasi vissuta, ma l’odio lo si vede ancora emergere dal cuore attraverso gli occhi di chi vive in tutta l’impotenza di una condizione.
Se il mio sentirlo fratello non lo avrà coinvolto, almeno mi avrà venduto una spilla ricavata da una moneta cilena, con incisi i tredici mesi del calendario precolombiano.
Mi racconterà dell’isola di Chiloè, patria dei mapuche “spirituali” del Chile, come di un incanto…
“Niño araucano”, che canticchio, ha più o meno la mia età ma pare provenire da un passato remotissimo, i Quilapayun oggi sembrano antichi e il loro canto di libertà sembra giungerci da una gola tagliata.
Il Chile che vedo, scottato dalla dittatura non punita e dai suoi resti ancora caldi, non si riflette più in quell’esperimento politico e sociale che fu stroncato in modo tanto violento quando sono nato. I cileni stanno tra il rimpianto e il non volerne mai più sapere.
In questa maglia slabbrata è difficile anche parlare di empoderiamento rurale come del senso di quelle comunità isolate che da tutta una dittatura (e forse anche da prima) sono rimaste a testa bassa.
Qui si riporta troppo facilmente qualunque ipotesi di lavoro in comunità al comunismo. Questa diffidenza verso una nostra presunta posizione a volte ci ostacola il lavoro.
Seppe far tesoro di quanto apprese come suo paggio durante i sei anni di prigionia in campo spagnolo: strategie di spionaggio, tattiche di guerra e uso delle armi e del cavallo che finalmente non sarebbe più stato considerato tutt’uno con il cavaliere.
La figura di Lautaro in plaza a Curicò.
Ma fu proprio sulle rive del Mataquito, il nostro bel fiume malvagio, a pochi kilometri dai nostri villaggi, che Lautaro trovò la morte in un imboscata.
La sua testa in seguito fu esposta nella plaza de armas di Santiago piantata su di una pica spagnola.
I cileni considerano entrambi loro eroi, ma non sono due eroi che fanno un solo Chile, per motivi ed interessi opposti combatterono fino all’ultimo l’uno contro l’altro senza alcun tentativo o possibilità di accordo, di riscatto o di riconciliazione.
Molti cileni riconoscono oggi a Lautaro di essere stato l’eroe più grande, se ne ammira l’intelligenza strategica, e la grandezza del disegno che andava oltre alla resistenza. Ma il Chile è il risultato delle colonie che Lautaro scacciava, e che hanno avuto ragione anche del suo popolo, che pure ancora resiste.
Forse un giorno, quando queste tensioni interne si pacificheranno, anche le opposte prospettive convergeranno.
Chi oggi considererebbe come eroe della patria Annibale o Scipione? La loro guerra non ci scalda più gli occhi e resta per noi la libera immedesimazione al genio della storia.
In questo modo soltanto anche Lautaro e De Valdivia potranno avere, fare e dare pace.
Dicono che Lautaro morì proprio qui sul Chiripilco, un cerro lungo il Mataquito; e a Curicò in plaza de armas, c’è una potente e selvaggia scultura (ammirevole e stonata) che lo ritrae nell’unico ceppo di un albero morto, e in alcun modo sembra partecipare della piazza in cui è posta.
Nella plaza de armas di Santiago, perfettamente a casa sua, c’è invece quella in bronzo di Pedro de Valdivia a cavallo.
Lautaro entra nella storia che scrivono i vincitori perché fu tanto valente da combatterli per il suo popolo e non abbastanza per batterli. I suoi discendenti pagano ancora nelle riserve e negli umili impieghi lo scotto dell’onorevole sconfitta. Una sconfitta che per quanto onorevole, nella storia scritta si accenta sempre su sconfitta. E come sconfitta continua.
Non più per vendetta ma per esercizio del mantenimento del potere.
Un venditore di ninnoli mapuche a Valparaiso ci racconta di come gli invasori, prima spagnoli, poi cileni li abbiano sempre ingannati, emarginati e sfruttati. Non raggiungeranno mai l’indipendenza nelle loro terre, non gli sarà mai più permesso di seppellire i loro morti dove e come vogliono, e per sempre gli saranno stati tolti i loro beni e i loro eroi, a maggior gloria del Chile.
È una storia eterna, già letta tante volte da averla quasi vissuta, ma l’odio lo si vede ancora emergere dal cuore attraverso gli occhi di chi vive in tutta l’impotenza di una condizione.
Se il mio sentirlo fratello non lo avrà coinvolto, almeno mi avrà venduto una spilla ricavata da una moneta cilena, con incisi i tredici mesi del calendario precolombiano.
Mi racconterà dell’isola di Chiloè, patria dei mapuche “spirituali” del Chile, come di un incanto…
Monumento equestre di Don Pedro de Valdivia, in plaza de armas a Santiago.
“Niño araucano”, che canticchio, ha più o meno la mia età ma pare provenire da un passato remotissimo, i Quilapayun oggi sembrano antichi e il loro canto di libertà sembra giungerci da una gola tagliata.
Il Chile che vedo, scottato dalla dittatura non punita e dai suoi resti ancora caldi, non si riflette più in quell’esperimento politico e sociale che fu stroncato in modo tanto violento quando sono nato. I cileni stanno tra il rimpianto e il non volerne mai più sapere.
In questa maglia slabbrata è difficile anche parlare di empoderiamento rurale come del senso di quelle comunità isolate che da tutta una dittatura (e forse anche da prima) sono rimaste a testa bassa.
Qui si riporta troppo facilmente qualunque ipotesi di lavoro in comunità al comunismo. Questa diffidenza verso una nostra presunta posizione a volte ci ostacola il lavoro.
* VALPARAISO *
* Sette Tazze *
MARZO'09
FEBBRAIO'09
GENNAIO'09
2008
2007
Dopo lunghe discussioni cominciamo in questo mese i laboratori di “empowerment”.
Jocelyn introduce a Camarico il tema della negoziazione. Sembra che in queste comunità campesine il terreno sia buono ma sappiamo che non si può dire, che tutta è da fare ancora, la lotta con l’angelo.
Parlo a lungo con la signora Margherita, che mi racconta della sua famiglia, di suo marito che lavora come temporero in un altro villaggio, dei suoi figli che studiano o lavorano in città. Mi confida con serena lucidità che sa benissimo (che tutti sanno) che la sua comunità è destinata a morire con loro, gli ultimi vecchi, e poi chissà cosa sarà di Camarico, forse sarà altra terra per piantagioni di pino o eucalipto di qualche grande impresa forestale.
Mi dice che è già tanto se i suoi figli, tanto impegnati, vengono nel cerro a trovarla una volta l’anno.
Don Celestino
Un’estinzione voluta e preparata da processi che passano molto al di sopra della loro e della nostra testa.
Ma non può essere così, davvero oggi non si può credere che una comunità possa morire. Certamente però può avvenire che la sua condizione cambi velocemente nel tempo e si tratterà allora di capire come cambia, se in meglio o in peggio; si tratta di capire quale grado di scelta abbia avuto la gente in questo cambiamento. E come aiutarla affinchè non resti invischiata troppo male nelle maglie di stravolgimenti dettati dall'alto: dalla moda, dalla storia.
Cercare di spiegare loro perché siamo qui, perché il “patrimonio campesino” sia tanto importante per noi è una sfida difficile, in fondo cosa c’entriamo? Ma queste persone adesso stanno con noi per il desarrollo e cercano di capire cosa possiamo darci reciprocamente, cercano di capire il senso di questo progetto tra cactus e spine, perchè abbiano cominciato a coinvolgerli e perchè ora cerchiamo di farli diventare protagonisti.
Ho anch’io il timore che il nostro gioco possa non “enganciare”, come dicono qui, ma non vedo alternative ne pericoli e soprattutto non mi attendo miracoli, siamo all’inizio di un processo durante il quale non va mai abbassata la guardia. Il suo senso starà in ciò che vedremo nascere tra queste comunità.
Il Mataquito di fine giugno che comincia a gonfiarsi ringhiando lungo i campi.
Fenomeno di erosione sotto pioggia battente.
Nella bella cattedrale, a Santiago, abbozzo un aborto di preghiera che finisce con l’ammissione inutile della mia coglioneria: Cosa servirà ancora a togliermi la pena, pena di aver perso l’ultimo treno in una stazione sotto il sole, in cui non passano più treni. Niente bigliettai ne avvisi – rimanerne l’ultimo abitante: cane nero in una chiesa, che non sa pregare e aspetta il boccone. Mi distraggo subito dopo di fronte alla statua-reliquia di un s. Magrini martire, a cui faccio una foto.
Tutto come spesso accade nelle mie giornate, ha il sapore del sogno ricordato nell’ultima notte. Sogno ragionato e fissato già durante la veglia della prima insonnia. Questo è stato quello lunghissimo che termina con un bacio a mio fratello quando mi suscita il ricordo (nei sogni un ricordo accende tutta la realtà di un passato inventato) di aver stravolto in "magazzino" le rive di un mio laghetto gelato, per costruire una bellissima barca.
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