FEBBRAIO '12
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"Tu hai usato violenza contro di me e non sai che non mi piegherò mai e poi mai nella sventura. Non dovresti saperlo? Hai creato il mio cuore dormendo?"
Knut Hamsun, Fame
Le acquette, il parco dello Storga, anzi della Storga.
Da me solennemente scoperto, meta delle mie solitudini e dei fischi di treni, conoscevo tutti gli alberi.
A pochi metri da casa mia, il paradiso per la rana di Lataste, per il tritone punteggiato, per la coronella austriaca e per me.
Nominai tutti gli alberi che infine furono abbattuti, vi tentai con alterna fortuna l'amore delle ragazze. Qui vidi le lepri danzare e il martin pescatore fare l'ago nell'acqua e riemergere con la spola di un pesce d'argento.
Non era mai una passeggiata, io facevo parte di quel luogo, che per me si dilatava, quando ero animale.
Lo percorrevo come un felino il suo territorio. Lo conoscevo tutto e tutto era mio. Mi sembrava logico che anche gli altri lo dovessero sapere.
Sognavo di comprarlo per proteggerlo, per lasciarlo abbandonato a piante e animali, per chiuderlo ai motorini che vi entravano. Così sarebbe stato solo mio e dei matti che talvolta si perdevano sconfinando dal vicino manicomio.
Naturalmente non lo comprai, ne quello ne altri spazi verdi, ma intanto continuavo ad andare lungo il fiume.
Un giorno ne vollero fare un parco.
Io non aspettavo altro, parco per me significava preservare l'esistente, salvare il salvabile. Quello che intendevano invece era valorizzare il luogo.
Misero delle passerelle e il luogo magico divenne per tutti.
Di quella natura conservarono il giardino. La bellezza si restrinse a misura umana, ossia la misura "media" dell'uomo.
Mi fu chiaro ancora che non era mio.
Nel frattempo la zona protetta fu allargata e vi piantarono minuscoli alberi in serrati filari, sembrava di stare in una vigna improduttiva e un po' triste.
Ordirono anche l'idea di trasformare il sacro e fatiscente manicomio nel nuovo palazzo del governo.
Infine si costruì il palazzo e s'istituì il parco.
Gli alberi ci avrebbero messo molto tempo a crescere, a rompere le geometrie e le file, a convincersi di ripristinare il caos ordinato dato dal tempo e dalla relazione tra gli esseri.
Oggi però, ritorno a distanza di anni e mi commuovo perchè ritrovo gli alberi lasciati crescere, cresciuti. E questa è una buona notizia.
Di sicuro non sarò più io a dare un nome a tutti gli alberi, ma qualcuno potrebbe ancora farlo.
Gli alberi autoctoni piantati dalla fine degli anni novanta sono certo ancora troppo esili per non dare più a vedere di esser stati messi a dimora in fitte e rette righe, ma cominciano già a differenziarsi, e cresceranno ancora, e crescendo stempereranno questa nozione umana di ordine pratico e geometrico.
Guardo sui rami sopra l'acqua, scorgo un altro pellegrino, un inafferrabile Luì di Pallas venuto con il Burian dalla Siberia. Del suo arrivo mi aveva detto Silvio.
Per niente stanco si direbbe del lungo viaggio.
Acquette.
Il luogo dei tre alberi.
Il luogo dei tre alberi.
Il parco della Storga dal sito della provincia di Treviso.
Le acquette, il parco dello Storga, anzi della Storga.
Da me solennemente scoperto, meta delle mie solitudini e dei fischi di treni, conoscevo tutti gli alberi.
A pochi metri da casa mia, il paradiso per la rana di Lataste, per il tritone punteggiato, per la coronella austriaca e per me.
Nominai tutti gli alberi che infine furono abbattuti, vi tentai con alterna fortuna l'amore delle ragazze. Qui vidi le lepri danzare e il martin pescatore fare l'ago nell'acqua e riemergere con la spola di un pesce d'argento.
Non era mai una passeggiata, io facevo parte di quel luogo, che per me si dilatava, quando ero animale.
Lo percorrevo come un felino il suo territorio. Lo conoscevo tutto e tutto era mio. Mi sembrava logico che anche gli altri lo dovessero sapere.
Sognavo di comprarlo per proteggerlo, per lasciarlo abbandonato a piante e animali, per chiuderlo ai motorini che vi entravano. Così sarebbe stato solo mio e dei matti che talvolta si perdevano sconfinando dal vicino manicomio.
Naturalmente non lo comprai, ne quello ne altri spazi verdi, ma intanto continuavo ad andare lungo il fiume.
Un giorno ne vollero fare un parco.
Io non aspettavo altro, parco per me significava preservare l'esistente, salvare il salvabile. Quello che intendevano invece era valorizzare il luogo.
Misero delle passerelle e il luogo magico divenne per tutti.
Di quella natura conservarono il giardino. La bellezza si restrinse a misura umana, ossia la misura "media" dell'uomo.
Mi fu chiaro ancora che non era mio.
Nel frattempo la zona protetta fu allargata e vi piantarono minuscoli alberi in serrati filari, sembrava di stare in una vigna improduttiva e un po' triste.
Ordirono anche l'idea di trasformare il sacro e fatiscente manicomio nel nuovo palazzo del governo.
Infine si costruì il palazzo e s'istituì il parco.
Gli alberi ci avrebbero messo molto tempo a crescere, a rompere le geometrie e le file, a convincersi di ripristinare il caos ordinato dato dal tempo e dalla relazione tra gli esseri.
Oggi però, ritorno a distanza di anni e mi commuovo perchè ritrovo gli alberi lasciati crescere, cresciuti. E questa è una buona notizia.
Di sicuro non sarò più io a dare un nome a tutti gli alberi, ma qualcuno potrebbe ancora farlo.
Gli alberi autoctoni piantati dalla fine degli anni novanta sono certo ancora troppo esili per non dare più a vedere di esser stati messi a dimora in fitte e rette righe, ma cominciano già a differenziarsi, e cresceranno ancora, e crescendo stempereranno questa nozione umana di ordine pratico e geometrico.
Guardo sui rami sopra l'acqua, scorgo un altro pellegrino, un inafferrabile Luì di Pallas venuto con il Burian dalla Siberia. Del suo arrivo mi aveva detto Silvio.
Per niente stanco si direbbe del lungo viaggio.
Luì di Pallas (Phylloscopus proregulus) alle acquette. Foto tratta da ebnitalia.it
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