SETTEMBRE'07
imponenti, che i figli di un Tirro e il Tirro padre (che governava
gli armenti del re e aveva in custodia estesissimi campi)
avevan sottratto alle poppe materne e nutrivano loro.
Abituato ai comandi, l'animale lasciava che Silvia, sorella,
gli ornasse le corna di ghirlandette tessute col massimo
zelo, lo pettinasse, lo lavasse con acqua di fonte.
Docile alle carezze, avvezzo alla mensa dei padroni,
quello vagava nei boschi e tornava sempre da solo
alla dimora ben nota, profonda che fosse la notte.
incocca una freccia nell'arco ricurvo, e prende la mira:
un dio corregge la mano maldestra, e la canna scoccata
ronzando forte trapassa le coste e si pianta nel ventre.
L'animale ferito ripara tra le pareti domestiche,
rantolando accede alle stalle, e tutto coperto di sangue,
quasi implorasse riempie tutta la casa di gemiti.
Eneide, libro VII, (vv.483-503)
Oggi sono grattacieli che cadono o irreperibili certezze della presenza di armi di distruzione di massa. In genere nei pretesti e nelle giustificazioni c'è più fantasia poetica che negli esiti dell'eterna, unica guerra.]
Inizia così la terza fase di avvicinamento alla partenza per il Tchad.
Questo corso di cinque settimane è un trampolino molto interessante per la nostra partenza, ci offre la possibilità di conoscere la politica e la storia di molti paesi africani praticamente dimenticati dalla nostra cultura. Provano a spiegarci come sarà andarci.
Quì si vive in una comunità di laici, preti e suore tutti destinati alla partenza o per l'Africa o per l'America del Sud, una comunità accomunata dall'idea di prepararsi per disperdersi; un'amicizia fondata sull'addio.
Quanta dolcezza è in questo. E' come se così facendo non ci si disperdesse ma anzi si affrontasse una causa comune. Una causa comune! Una preparazione da kamikaze senza morte, un buon proposito per il nostro teschio breve.
Confesso che sorge una coscienza del mondo che riempie le prime ore dopo il risveglio di pensieri nuovi.
di Giulio Soravia
È probabilmente impossibile fornire un elenco delle lingue parlate in Africa, più ancora in chiave diacronica, se consideriamo come per molte di esse la conoscenza scientifica si basa su dati in possesso degli studiosi da non oltre cento anni e anche meno. Non servono molto, a ricostruire la storia linguistica dell’Africa, le poche parole ricordate da Eugène de La Fosse nel XVI secolo per il kikongo; infatti si tratta di un caso pressoché unico. Molte lingue si sono estinte in tempi passati, ma ancor più in tempi recenti. Le popolazioni chiamate damara in Sudafrica e in Namibia, per esempio, sono passate all’uso dell’afrikaans, perdendo la loro identità linguistica ed etnica fin dal secolo scorso. Non si tratta di un caso isolato.
Nei tempi antichi vi furono indubbiamente popolazioni di lingua oggi ignota, che adottarono le lingue di altri popoli, vicini ed egemoni, o conquistatori. La loro storia ci è largamente sconosciuta. I grandi spostamenti e le migrazioni che hanno interessato l’Africa anche in periodi recenti non aiutano certo a chiarirci i problemi della classificazione delle lingue africane. Un’umanità parlante presente sul suolo africano da diverse decine di migliaia di anni non risusciterà mai a dirci come parlava. È utile, tuttavia, ricordare come la lingua al mondo che conosciamo meglio nella sua continuità storica sia africana. Stiamo parlando dell’antico egizio la cui storia è nota per un arco di 4000 anni, dalle prime testimonianze attorno al 2500 a.C. fino all’estinzione del copto, suo continuatore, come lingua parlata, nel XVI secolo. Eppure, nella storia dell’egizio è racchiuso emblematicamente un insegnamento, vien voglia di pensare, circa la difficoltà di dirimere problemi storici di questo continente (non solo in chiave linguistica), su cui vale la pena soffermarsi a riflettere.
Non solo infatti l’egizio è una lingua di confine tra le lingue semitiche (asiatiche) e l’africanità, ma è essa stessa una lingua anomala, per certi versi. Essa è unica nella sua struttura, che ricorda bene le lingue considerate affini, eppure con diversità fondamentali da esse. Una lingua forse - come qualcuno ha azzardato - risultato di un processo di fusione di svariati apporti: quelli delle tante popolazioni africane che in tempi preistorici confluirono nella valle del Nilo, ciascuna con la sua lingua. Se le affinità con le lingue semitiche e cuscitiche sono evidenti, l’egizio mostra anche tratti di un’africanità difficile da definire, tanto più che la sua fase più antica non scriveva il tessuto vocalico permettendoci così solo una conoscenza imperfetta di essa.
Dunque, l’egizio, che potrebbe essere una chiave di conoscenza di 4000 anni di storia africana, finisce con il creare più interrogativi di quanti ne risolva. E questo è il destino dei linguisti che si occupano di Africa. Trovarsi sempre di fronte alla prospettiva di formulare teorie impossibili da verificare.
Un altro caso: in Africa orientale esistono lingue caratterizzate dalla presenza di alcuni suoni unici al mondo, i click. Si tratta di suoni che conosciamo bene, ma che non si presentano come vere e proprie consonanti di una lingua al di fuori da alcune aree africane, soprattutto nell’Africa meridionale. Per intenderci suoni simili a quando imitiamo lo schiocco di un turacciolo, o il “tc-tc” di disapprovazione o di negazione, il suono per incitare un cavallo e così via.
L’importanza del fenomeno ha indotto i linguisti a raggruppare tali lingue in una piccola famiglia chiamata khoi-san. Khoi è l’autonimo di quelli che i boeri chiamarono ottentotti, san di quelli noti a molta bibliografia antropologica come boscimani. Ora, è dubbio che le lingue di tali popoli facciano parte della stessa famiglia, men che meno le lingue dei cosiddetti sandawe e dei kindiga o hatsa dell’Africa orientale, ma poiché tutte condividono tale caratteristica è ormai uso parlare di lingue khoisanidi e considerarle una delle più antiche famiglie linguistiche africane.
Di più, i cacciatori boon della Somalia sono probabilmente residui di popolazioni “khoisanidi”, ma parlano oggi somalo. Non solo, ma dei click si trovano anche in alcune lingue bantu del Sudafrica, quali il xhosa e lo zulu, senza che queste siano da considerarsi khoisanidi. Quei suoni in esse sono solo “imprestiti”, dovuti alla vicinanza (adstrato).
Tutto ciò ci fa comprendere come sia arduo tentare una classificazione delle lingue africane, sia pure a titolo orientativo e come ciò spesso giustifichi perché ci imbattiamo in autori con idee molto diverse tra loro in proposito, e anche come non si debbano mai confondere le classificazioni linguistiche con considerazioni etniche. Possiamo infatti spaziare da autori che hanno frammentato la classificazione in una miriade di famiglie distinte, fino al faentino O. Assirelli che, nel quadro della monogenesi trombettiana, inquadrava tutte le lingue africane in un solo raggruppamento, ricollegabile con le lingue dei neri oceanici!
Le lingue africane, tuttavia (lasciando a parte per ora le cosiddette lingue afro-asiatiche e le khoisanidi di cui abbiamo fatto cenno sopra), secondo le più diffuse teorie cui ha dato corpo il linguista americano J. Greenberg, sono essenzialmente legate a due phyla principali. Due superfamiglie, per così dire: quella delle lingue nilo-sahariane e quelle del gruppo cosiddetto Niger-Congo-Kordofaniano.
Le lingue nilo-sahariane
Della prima famiglia, che si colloca in una fascia subsahariana dall’Atlantico al Nilo, fanno parte a occidente e al centro lingue quali il songhai e il kanuri, un tempo importanti veicoli di comunicazione negli stati del passato. All’estremità orientale invece vi sono le cosiddette lingue nilotiche, diffuse dal Sudan all’Etiopia, dall’Uganda al Kenya, tra le quali qualche importanza rivestono l’acholi, il dinka, il luo, il nuer. Più esattamente lo schema potrebbe essere il seguente, secondo Greenberg:
1) songhai
2) Sahara centrale: kanuri, teda, zaghawa
3) maba
4) fur
5) coman
6) lingue del Chari e Nilo:
orientali: nubiano, didinga-murle, barea, tabi,
teuso, nyimang e
lingue nilotiche (orientali, meridionali e
occidentali)
centrali: bongo-bagirmi, kreish, moru-madi,
mangbetu, lendu
lingue isolate: berta, kunama
Le lingue nilotiche a loro volta comprendono:
1) occidentali: nuer, dinka, lwo
2) orientali: acholi, kumam
3) meridionali o nilo-camitiche: maasai, bari,
turkana, lotuho
Le lingue del gruppo sahariano occidentale potrebbero essere classificate come segue, e si comprende così la complessità degli schemi:
Gruppo settentrionale:
1) lingue del Senegal (wolof, fula, serer)
2) lingue Cangin (lehar, ndut, ecc.)
3) lingue Bak (diola, manjaku, balanta, ecc.)
4) lingue della Guinea Bissau/est Senegal
(tenda, konyagi, biafada, kobiana, banhum)
5) nalu
Gruppo meridionale:
1) sua
2) lingue Mel (temne, baga, koba, sherbro, gola...)
3) limba
A parte merita considerazione il nubiano, in realtà un gruppo di dialetti, tra i quali spicca il dongolawi, parlato lungo la valle del Nilo tra Egitto e Sudan, fino alla zona di Dongola, nel Darfur e nel Kordofan. Il nubiano fu lingua di cultura nei regni che si svilupparono in Nubia, appunto, fino alla conquista araba nei secc. XIII-XVI e oggi vivono accanto all’arabo in posizione fortemente subordinata. Ma più interessante è la possibile connessione con la lingua di Meroe. Gli egizi conoscevano i nubiani che chiamavano nb. Il meroitico fu scritto con un alfabeto derivato dall’egizio geroglifico ed è lingua mal nota, ma la connessione è probabile e si tratterebbe di un altro raro caso di lingua africana attestata dall’antichità.
Le lingue del gruppo Niger-Congo-Kordofaniano
Nella seconda famiglia troviamo due raggruppamenti chiamati Niger-Congo e Kordofaniano. I nomi stessi - geografici - mostrano chiaramente la loro frammistione sul territorio con le lingue nilo-sahariane. Non ci tratterremo a lungo su tali classificazioni, altrettanto complesse. Di fatto, sotto il profilo di uno studio comparatistico solo le lingue chiamate bantu, un sottogruppo del Niger-Congo, sono state esaminate estensivamente e ciò essenzialmente per due motivi:
1) esse presentano una notevole uniformità tipologica;
2) le popolazioni che le parlano occupano una vastissima area (praticamente tutta l’Africa a sud dell’Equatore e, a occidente, il Gabon e il Camerun, con l’eccezione delle aree meridionali estreme), ma sono emigrate in queste aree relativamente di recente e quindi la frammentazione linguistica è un fenomeno non molto antico anche a livello lessicale.
Le lingue bantu furono così denominate per la prima volta da Bleek, nella sua Comparative Grammar. La parola significa “gente”, plurale di muntu, in zulu e altre lingue (swahili mtu, fang mur, ecc.) e sono caratterizzate da una complessa rete di accordi fatta di prefissi che le rendono estremamente armoniche all’udito. In bubangi (Zaire, fiume Ubangi), per esempio, la frase “si è perso l’altro tuo coltello” sarà: “butali buyiyi busisu buulimbana” e, al plurale: “matali mayiyi masisu maulimbana”.
Allo stesso modo in Uganda i baganda parlano luganda, mentre in Sudafrica gli amazulu parlano isizulu, in Kenya i wakamba parlano kikamba, e così via.
Le lingue bantu si ritrovano in tutta l’Africa subequatoriale, e tra le più importanti troviamo il kikongo, il chiluba e il lingala (Zaire), il kimbundu (Angola), l’otjiherero (Namibia), il fang (Gabon), il bamileke (Camerun), lo isizulu, lo isixhosa, il chivenda (Sudafrica), il sesotho (in realtà due lingue nel Lesotho e in Sudafrica), il siswazi (Swaziland), il setswana (Botswana), il sindebele e il chishona (Zimbabwe), il silozi (Zambia), il chichewa (Malawi), il kinyarwanda (Ruanda), il kirundi (Burundi), il luganda (Uganda), il kikuyu (Kenya), ecc. Sullo swahili (kiswahili) torneremo.
Le lingue della famiglia afro-asiatica
Un altro gruppo di lingue africane è in realtà costituito da lingue di confine: sono le cosiddette lingue della famiglia afro-asiatica, dunque una famiglia non tipicamente o solamente africana. Tali lingue sono:
1) i vari dialetti berberi del Nordafrica;
2) l’antico egizio;
3) le lingue cuscitiche (somalo, afar, oromo, ecc.);
4) le lingue chadiche (hausa);
5) le lingue dell’Omo;
6) le lingue semitiche.
Ora, proprio queste ultime rivestono una notevole importanza, ma sono lingue di popoli migrati dall’Asia (le lingue dell’Etiopia quali il ge’ez e, tra le moderne, l’amarico, il tigrino, il tigrè, l’argobba, lo harari, il gurage, ecc.) o, per il caso dell’arabo, troviamo una lingua impostasi con la diffusione dell’Islam e poi con i commerci, ma il cui luogo d’origine è nella penisola arabica. La forte connotazione religiosa dell’arabo è alla base della scelta delle Comore, che hanno adottato recentemente sia il francese che l’arabo come lingue ufficiali, malgrado la popolazione parli per lo più un dialetto swahili. Curioso è anche per altro (e si confronti con le scelte della Somalia) ciò che è avvenuto a Gibuti. Le lingue usate dalla popolazione sono il somalo e l’afar, ma le lingue ufficiali sono il francese e, di nuovo, l’arabo.
Del resto anche il greco e il latino furono lingue “importate” sul suolo africano nell’antichità. In tempi più vicini a noi, viaggiatori, mercanti e poi colonizzatori hanno ridisegnato le mappe geolinguistiche delle coste a seconda dei loro bisogni e per loro imposizione. Così, lingue quali il portoghese, l’olandese (poi trasformatosi nell’afrikaans), il tedesco (per breve tempo), l’inglese, il francese, l’italiano e lo spagnolo hanno assunto una importanza più o meno grande nelle comunicazioni e nella politica linguistica e culturale africana.
A sé va considerato il caso del malgascio: a Madagascar il popolamento dalle aree indonesiane è recente (si colloca attorno al V-VI secolo dell’era cristiana) e ha fatto sì che oggi vi si parlino quei dialetti malgasci, di cui il merina è lingua ufficiale, strettamente collegati alle lingue indonesiane. Il poco swahili che si parla nell’area è solo frutto di ovvi contatti con la costa continentale.
Pidgin, creoli e lingue franche
Il discorso dei traffici e dei commerci, la navigazione lungo le coste, i contatti col mondo non africano (anche all’interno del continente) ci portano a dover considerare un altro aspetto della formazione linguistica dell’Africa attuale. Lingue franche e di scambio hanno cominciato a sorgervi parecchi secoli orsono; pidgin e creoli prosperano in varie aree. Il pidgin è una lingua che nasce dalle necessità di comunicazione in aree o in situazioni di esasperato multilinguismo. Le teorie sulla nascita dei pidgin sono molte e non condivise da tutti i linguisti. Per solito, tuttavia, ci si trova di fronte a una lingua che utilizza strutture molto semplificate (si pensi all’italiano coi verbi all’infinito) di una lingua e un lessico di un’altra lingua, molto noto o diffuso. Così, ad esempio, il krio della Sierra Leone ha un lessico largamente inglese, con parole foneticamente semplificate, su una base grammaticale estremamente semplice, che richiama quella delle lingue del posto.
La creolizzazione è invece il fenomeno di adattamento di una lingua in un luogo diverso da quello storico di provenienza. Di fatto un pidgin, sempre per semplificare, si creolizza quando diviene lingua d’uso e addirittura prima lingua di una nuova generazione.
Già nel XIII secolo nel Mediterraneo vediamo l’esistenza di una lingua di scambio, con le caratteristiche di pidgin, che fu detta lingua franca (il termine fu usato da allora a indicare una qualunque lingua di intercomunicazione) o anche sabir. Si trattava di una forma semplificata di italo-spagnolo che rimase largamente praticata sulle coste del Maghreb e altrove nel Mediterraneo fino agli inizi dell’800.
Anche l’arabo fu usato in forme semplificate a scopo di commerci e traffici, come sappiamo da testimonianze sia in Africa occidentale che sulle coste orientali a partire dall’Egitto (testimonianze di Ludovico de Varthema). Tuttora in Ciad si usa il turku, che non è altro che un pidgin a base araba, e la hasaniyya dell’ex-Sahara spagnolo e della Mauritania è un dialetto arabo particolarmente aberrante rispetto allo standard e ad altri dialetti. Per l’arabo del resto vale il discorso di una diglossia che vede nel Nordafrica un uso scritto di ciò che si chiama oggi arabo standard moderno e localmente di “volgari” di uso comune, quotidiano, familiare, ma talvolta usati anche nei media, che tuttavia non vengono scritti e che non sono necessariamente reciprocamente comprensibili.
Furono tuttavia lingue come il portoghese e successivamente l’inglese e il francese a fornire la base per pidgin e creoli tuttora in uso in Africa (e altrove), quali il ricordato krio della Sierra Leone, a base inglese, il sango a base francese nella Repubblica Centroafricana, i portoghesi creoli del Cabo Verde e della Guinea Bissau, di São Tomé e, ancora, nell’Oceano Indiano il creolo di Maurizio e delle Seychelles, entrambi a base francese.
Interessante è ricordare che mentre a Maurizio lingua ufficiale è l’inglese, nelle Seychelles il creolo ha un riconoscimento ufficiale accanto sia al francese che all’inglese.
La lingua swahili
Un processo di creolizzazione è anche alla base di quella che si può considerare la più importante lingua africana, il swahili o, meglio, il kiswahili (ki- in molte lingue bantu è il prefisso che indica la lingua o meglio la forma avverbiale - parlo kiswahili = parlo alla swahili). Il kiswahili è una lingua bantu estremamente semplificata ma perfettamente strutturata secondo lo schema delle lingue bantu. È priva di toni musicali e la sua fonetica è molto semplice. Ha dunque tutte le caratteristiche di un pidgin; infatti il suo lessico è largamente formato da parole imprestate dall’arabo e semplificate nella pronuncia (la stessa parola swahili, viene dall’arabo sawâhil, “coste”). Inoltre l’uso improprio della lingua ha prodotto un nuovo pidgin a base swahili, che talvolta è usato da chi non lo conosce bene (chiamato talvolta kisetla - ingl. settler - nel passato), così come l’uso improprio dello zulu e del xhosa in Sudafrica ha dato luogo a un pidgin chiamato talvolta kitchen kaffir.
Il kiswahili cominciò a diffondersi come lingua dei commerci sulle coste dell’Africa orientale dalla Somalia (Brava) fino al Mozambico (Sofala) a partire almeno dall’XI secolo. Fu anche lingua letteraria e di cultura. Successivamente lo troviamo in uso, talvolta scritto in caratteri arabi, nelle Comore e sulle coste di Madagascar così come nell’entroterra fino ai Grandi Laghi e nello Zaire orientale. Tale è l’area di diffusione attuale della lingua, di cui per altro esistono vari dialetti, tra i quali il kiunguja, il dialetto di Zanzibar, è alla base della lingua standard. Il kiswahili si scrive oggi in caratteri latini e vanta una discreta letteratura moderna, giornali, programmi radiotelevisivi, ecc. Esso è compreso da tutti o quasi nell’area sopra descritta, almeno come seconda lingua.
Le lingue coloniali
La colonizzazione non portò sostanziali cambiamenti nel quadro linguistico africano se non perché introdusse l’uso di alcune lingue europee. Tuttavia le conseguenze della colonizzazione furono significative, sia perché la comunicazione più allargata impose l’uso di interlingue che negli assetti politici e linguistici precedenti non avevano ragione di essere, sia perché il tracciato dei nuovi confini imporrà l’uso di lingue ufficiali dei vari stati, questione che diventerà urgente con la decolonizzazione.
Abbiamo visto che in Africa occidentale non solo le lingue sono numerosissime e assai diverse fra loro, ma addirittura vi si ritrovano tre diverse famiglie linguistiche mischiate. Se alcune lingue storicamente avevano avuto una certa importanza, i nuovi confini coloniali portavano un notevole scompiglio nelle isoglosse reali. Di fatto è comprensibile come nell’Africa occidentale i nuovi stati non ebbero altra soluzione che adottare come lingue ufficiali le lingue dei vecchi colonizzatori. In Nigeria si parlano oltre 60 lingue e, malgrado alcune come lo yoruba, lo hausa e l’igbo abbiano notevole importanza, solo l’inglese consente di risolvere i problemi linguistici del paese nel suo insieme. D’altro canto il fulani (fula, fulbe, peul, pular) è una lingua di notevole importanza, ma oltre alle diversità dialettali, la sua diffusione dal Senegal alla Nigeria e al Camerun non ha favorito la sua utilizzazione a livello ufficiale in nessuno stato. In Senegal, ancora, il wolof è considerato lingua nazionale ma, con tutto il peso di intellettuali quali Senghor, il francese vi è divenuto lingua ufficiale, mentre le numerose altre lingue sono anche usate nei media, ma testimoniano di una situazione complessa e altrimenti irresolubile. In Camerun la maggiore lingua locale, il bamileke (talvolta chiamato anche duala, dalla sua zona di maggior diffusione), è parlato solo dal 15% della popolazione. Di converso l’area linguistica fang si divide in tre stati (Congo, Gabon e Guinea equatoriale) pur non essendo questa lingua una delle maggiori, per effetto dei confini politici di eredità coloniale.
Se è probabile che le zone francofone risentano in parte anche della politica francese nella continuità d’uso di tale lingua, ciò non basta a spiegare tutte le scelte. Fatti oggettivi talvolta determinarono diversi esiti: in Tanzania un altro intellettuale, Julius Nyerere, può aver spinto all’uso del kiswahili, e tuttavia la situazione era diversa in partenza. Come abbiamo visto la lingua era in uso già come interlingua.
Ancora, lo Zaire ha almeno tre lingue di notevole importanza, il lingala, il kiswahili e il kikongo oltre, in parte, il chiluba, ma il francese rimane un veicolo di istruzione e di intercomunicazione per ora insostituibile nella complessa realtà del paese, come lingua ufficiale.
Diversa ancora la situazione in altri paesi. Se il Sudafrica vede la presenza dell’afrikaans e dell’inglese sovrastare alcune lingue pure di notevole diffusione tra la popolazione africana, in Africa australe le lingue locali sono divenute ufficiali solo laddove la situazione reale lo consentiva. Tale il caso del Lesotho e dello Swaziland, ad esempio. Le lingue africane parlate nella Repubblica sudafricana, invece, sono diverse decine, tra cui una dozzina e mezza di qualche importanza! La Tanzania non ha avuto problemi a proclamare lingua ufficiale il kiswahili, ma in Kenya l’inglese è rimasto a lungo nell’uso ufficiale accanto a tale lingua e in Uganda la situazione è ancora più complessa, malgrado la notevole diffusione del kiswahili, anche perché il luganda è irrinunciabile per le classi elitarie di alcune aree del paese.
L’Etiopia ha per secoli utilizzato come unica lingua di cultura e d’uso ufficiale l’amarico anche come lingua scritta (il ge’ez, in uso prima del XIII secolo, è rimasto lingua liturgica della chiesa locale), ma i recenti sviluppi della situazione politica hanno costretto a rivedere il quadro linguistico di un paese che si trova diverse decine di lingue parlate nel suo territorio. Così, ad esempio, la lingua oromo ha visto recentemente la possibilità di essere finalmente riconosciuta per un uso non più soltanto orale, familiare o di insegnamento primario.
D’altro canto la recente indipendenza dell’Eritrea ha posto la necessità di scegliere una lingua ufficiale per il nuovo stato e, così, il tigrino ha avuto la possibilità di divenire lingua ufficiale. Ma la sua connotazione sociopolitica, fortemente legata alla parte cristiana della popolazione, ha imposto la scelta di una seconda lingua “per i musulmani”. Questi parlano per lo più tigrè e altre lingue “minori”: la scelta è caduta sull’arabo, allora, lingua dei commerci e usata sulla costa. Scelta felice? Certo, l’arabo in un certo senso non è la lingua di nessuno in Eritrea, ma, a parte la valenza religiosa, è una lingua che consente di intrattenere rapporti e legami con il mondo arabo.
L’arabo, del resto, fu lingua di colonizzatori in Nordafrica, per certi versi. L’espansione dell’Islam in epoche successive alla prima fase non portò all’arabizzazione linguistica, ma è indubbio che la conquista dell’Egitto da parte di ‘Amr Ibn al-‘As nel 642 fu, nella prima fase, un fattore che spazzò rapidamente l’uso del greco e pose una seria ipoteca all’uso del copto. Più lenta e graduale fu la conquista del Maghreb e spesso grazie ad alleanze con tribù berberofone. Ciò spiega la sopravvivenza della lingua fino a oggi sia in Libia (Gebel Fassato), che in Tunisia e, con ancora maggior vigore, in Algeria, Marocco, Niger, Mauritania e Mali.
I dialetti berberi sono attestati, almeno parzialmente, fin dai tempi della conquista romana: le iscrizioni numidiche in qualche modo sono continuate dalle scritte in tifinagh dei berberi del sud, i cosiddetti tuaregh (il termine è arabo, per amazight, tamazight la lingua). Ma le varie forme non hanno avuto mai statuto scritto e ufficiale. Se la politica marocchina ha consentito, poi, l’uso della lingua nei media e in situazioni semiufficiali, in Algeria, per reazione alla politica francese del divide et impera, che insisteva sulla berberità di parte della popolazione, l’arabizzazione post-coloniale ha impedito fino a tempi recenti l’utilizzazione del berbero, talvolta con dure repressioni delle rivendicazioni di intellettuali e studenti.
I dialetti berberi, comunque, sono riusciti a sopravvivere, tranne che nelle Canarie, dove l’intera popolazione dei guanchos è stata assimilata e con essi la lingua. Ma in certe aree il pericolo di estinzione pesa: gli amazight, in quanto nomadi, sono “rifiutati” dall’Algeria e dal Niger allo stesso modo. La frammentazione dialettale non aiuta alla sopravvivenza della lingua (e non solo di questa).
Di fatto, la Somalia è uno dei pochi stati che non avrebbe avuto problemi di pianificazione linguistica nel momento dell’indipendenza: il somalo, pur con varianti dialettali non sempre insignificanti, è la lingua del 95% della popolazione. Eppure anche in Somalia le cose non andarono così lisce. Risultato della fusione di due ex-colonie, l’inglese e l’italiano premevano per far valere le loro ragioni (e con esse l’alfabeto latino) in nome di una maggiore utilità internazionale. Ma essendo i somali nella totalità musulmani anche l’arabo era un candidato di notevole peso. All’epoca (anni ’50 e ’60) pareva che il candidato più ovvio non fosse preso in considerazione. Fu Siyaad Barre, a onor del vero, che prese la decisione di adottare il somalo nel 1972 (e l’alfabeto latino, contro l’arabo e l’osmaniyya, un alfabeto inventato negli anni ’20 da un intellettuale somalo di nome Osman Kenadid). Per anni tuttavia le quattro lingue hanno convissuto in Somalia a vari livelli di semi-ufficialità senza creare troppa confusione.
Delle lingue dei colonizzatori, tre hanno subito il destino di quasi scomparire. Il tedesco rimane in uso solo in Namibia e ciò con la scomparsa delle colonie tedesche dopo il primo conflitto mondiale (Camerun, Togo, Tanganyika). Lo spagnolo sopravvive nella Guinea Equatoriale (dove per altro si parlano il fang e il bubi, mentre la tendenza è a sostituire lo spagnolo col francese usato nei paesi limitrofi) e nelle enclave spagnole in Marocco di Ceuta e Melilla. L’italiano è ancora largamente conosciuto in Eritrea, ma ormai poco in Etiopia e, in Somalia, se fino alla guerra civile era largamente usato, almeno a Mogadiscio e nelle città costiere (ma non nell’ex-Somaliland), oggi è probabile che sia in forte regresso. Del resto il suo declino era iniziato già nell’epoca di Siyaad Barre quando il suo insegnamento fu abolito in tutte le scuole.
Di fatto, ciò che osserviamo è che la grande maggioranza degli stati africani utilizza come lingue ufficiali due lingue, l’inglese (17 stati, da solo o associato ad altra lingua, e inoltre Saint Helena, ancora colonia britannica) e il francese (19 stati, oltre a Mayotte e La Réunion). In certi casi col paradosso di usarle entrambe, come è il caso del Camerun (un caso analogo di condominio culturale postcoloniale è nelle Vanuatu), dove il bamileke, il bamun, l’ewondo e il fulani sono ugualmente importanti, ma solo per una parte della popolazione, senza possibilità di assurgere a lingua nazionale per una di loro. Il portoghese ha pure una posizione forte, ufficiale qual è in Mozambico, in Angola, nel Capo Verde, nella Guinea Bissau e a São Tomé.
Le prospettive delle lingue africane
Il futuro delle lingue africane è imprevedibile. Se è vero che persino alcune lingue europee si trovano minacciate (pensiamo a recenti proposte di dichiarare ufficiale in Olanda l’inglese), possiamo immaginare che solo pochissime tra le lingue africane abbiano le carte in regola per porsi di fronte allo strapotere dell’inglese e del francese e dei media.
Naturalmente l’arabo, il kiswahili, l’amarico e forse qualche altra lingua hanno capacità di resistenza, ma che dire di altre lingue che pure oggi hanno statuto ufficiale? Parliamo del somalo, del tigrino, del wolof e di numerose altre, per tacere delle lingue di minoranze o comunque disperse in vari paesi, come il fulani. Pensiamo anche a lingue di qualche consistenza nei rispettivi paesi, quali il sara nel Ciad, il dendi nel Benin, l’ewe nel Togo, il twi, il fanti nel Ghana, il mande nel Mali, il mende in Sierra Leone, il soninke nella Mauritania, il ciyao in Mozambico, l’ekihehe in Tanzania, e così via. È vero che, paradossalmente, certi media moderni favoriscono le lingue minoritarie. Nel passato una stampa in lingue minori poteva essere impensabile: un giornale in una lingua su cui pesava oltretutto una tradizione orale, e quindi povera di lettori, era destinato al fallimento anche se avesse trovato editori capaci economicamente di spingerlo. Oggi i media come la radio e la televisione sono per certi versi meno “costosi” e più fruibili in un contesto di oralità diffusa come è tuttora quello africano. Anche i mezzi di stampa (offset, computer, ecc.) risultano poco costosi rispetto alla qualità di un prodotto che un tempo era destinato solo alla riproduzione ciclostilata. Così il destino di molte lingue può essere deciso proprio dalla TV, anche se il “prestigio” del mezzo, in senso ascoliano, si sposa più con l’uso dell’inglese o del francese. Il discorso porterebbe lontano e non è certo limitato all’Africa.
Un altro fattore ha sicuramente una rilevanza in questo quadro: la funzione degli intellettuali africani e le loro scelte. Sapranno o vorranno valorizzare le lingue africane? Il peso economico dell’uso dell’inglese o del francese non farà prevalere le lingue europee sulle lingue africane nelle scelte di scrittori e di intellettuali? E comunque come possono gli scrittori pubblicare in igbo, in serer, in fulbe, in somalo, senza autocondannarsi all’esclusione da un pubblico più vasto, in assenza non solo di potenziali lettori, ma di una adeguata distribuzione e di traduttori in lingue più diffuse?
Tutto ciò senza voler ipotecare un futuro, che si rivela sempre imprevedibile, storicamente, rispetto alle illazioni che i linguisti tentano di formulare.
Valgano, dunque, le considerazioni sopra riportate solo come spunti di riflessione ed elementi su cui basarsi per seguire gli avvenimenti che si produrranno in Africa nelle politiche culturali dei suoi stati e dei suoi intellettuali. L’auspicio, del resto, se ce ne fosse bisogno, non può essere che uno: l’uniformità linguistica è una piaga da evitare e solo si sposa con quell’omologazione culturale, che procede sempre verso il basso e verso le società consumistiche, dalla quale occorre rifuggere con tutte le nostre forze.
Giulio Soravia è professore di Lingua e letteratura araba presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna.
Bibliografia di riferimento
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A. Basset, La langue berbère, London 1952.
W. H. I. Bleek, A Comparative Grammar of South African Languages, Cape Town 1869.
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