L'animale felice
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“In un contesto storico, l’etologia lorenziana rientra nella categoria di quello che Lovejoy e Boas hanno chiamato “animalitarismo”: “la tendenza a rappresentare le bestie – per un motivo o per l’altro – come creature più ammirevoli, più normali o più fortunate della specie umana”. Che l’uomo sia un essere difettoso o aberrante, che la sua Caduta sia avvenuta prima ancora che egli diventasse umano, è un tema costante del pensiero occidentale dal quarto secolo a.C. in poi, specie nelle società che si sono perse d’animo. Infatti, se il concetto del buon selvaggio ha incoraggiato i riformatori di indole livellatrice a sperare in una vita più semplice ed equa, il Mito della Bestia Felice ha condannato le speranze in un mondo migliore, ha generato nell’uomo il disgusto di sé e delle sue opere, l’ha assolto dalla responsabilità delle sue azioni, e lo ha portato, nella sua disperata ricerca di rimedi, a cadere in un’anestesia morale collettiva e a piegare il collo alla tirannide.”
Non è questa la natura, quella delle figure classificate nei miei libri, ma quella cangiante dove l’uccello spesso non ha un nome, è solo un bagliore verde o azzurro, o un nastro volante, la scia bianca di una coda. In questa natura insistente e curiosa sono gli insetti a venirti a cercare, insetti giganti, e piccolissime termiti che odiano la luce, che tendono al legno stagionato dei mobili creando minuscoli corridoi di sabbia ramificati come coralli.
In questa parte d’Africa possiamo affaticarci invano contro di loro con insetticidi e veleni, qui l’animale non resta un raro fenomeno. Ho visto tanti rospi in una sola notte che era impossibile non pestarli, tante formiche alate che al mattino il prato luccicava di tremule ali. Fenomeni febbrili e stagionali che si consumano spesso in una sola notte, cattivi odori, profumi, o piccole migrazioni che si fanno notare, schiuse improvvise di locuste o di serpenti che invadono la casa. O i racconti degli elefanti (che io non ho ancora visto) sconfinati dal Camerun a non più di 20 km da qui, che vengono a distruggere i raccolti.
Gli animali e l’idea della natura selvaggia mi sono sempre stati elementi indispensabili, tra le poche certezze è sempre stato essere dalla loro parte, non in quanto vegetariano o “animalitarista” ma in una sorta di rifugio magico, come preso nella loro varia bellezza. Nel pensiero che gli animali sono la “felicità”, in questo ho nutrito una fede incrollabile, perché la bellezza era la felicità. Al tempo della guerra fredda, da bambino, pensando all’annientamento totale della mia specie, di tutte le opere e dei miei cari, nella cieca angoscia di quella visione, l’idea che una mosca, un ratto o un batterio sarebbero sopravvissuti mi consolava (i custodi talvolta affidano ai custoditi la loro custodia) perché sapevo che “l’innumerabile famiglia” non avrebbe potuto avere fine.
Ma io sembravo venuto alla fine, era già finita la guerra con la Natura, e l’uomo pareva aver vinto. Madre, matrigna e ora vecchia, quella Totalità bisognava andarla a trovare all’ospizio; vinta, battuta, usata e rinchiusa in parchi e riserve sempre più minacciate, sempre più rare, sempre più piccole.
Questo almeno il luogo comune, la mezza verità da cui forse nasce il mito.
L’animale felice, è vero, è infatti solo un mito tra gli altri. Il fatto che io ci creda profondamente non lo avvera, forse sarebbe stato bene propendere verso i propri simili senza condizioni e realisticamente giocarsi l’amore solo in quel campo; ma che sarebbe di me se crollasse questa fede: l’animale è felice! L’animale, e l’uomo quanto più gli si avvicina.
Per nessuno il bagliore dell’età dell’oro è indifferente. Nella mia memoria il mito dell’animale felice prende la forma dell’irrecuperabile, del totalmente altro. L’animale che ammiravo, che studiavo, che disegnavo era il banco di prova, la forma stessa della felicità cui rendere omaggio.
Felicità che – poi ho capito – non poteva consumarsi nel possesso, nel mescolarsi delle vite (e non è questo a cui tendono gli altri amori umani?) senza pretendere l’incontro come un’amicizia. L’amore per l’animale era per me un voyerismo aperto, una reazione al contatto con l’irraggiungibile. Ho sognato nelle ore migliori – e non solo da bambino – guardando un animale, di esserlo; giocando a conoscermi come nuova cosa e carezzando così, ancora una volta, la mia natura elegiaca. Nelle mie ore migliori ho tentato un'altra dimensione, un altro tempo.
Il pericolo allora era non vedere la bellezza nei miei simili, generando “il disgusto di sé e delle opere”, e di cogliere degli uomini solamente la profondità quando si addentravano con me nel sentiero lussureggiante della natura immaginata.
Gli adepti del mito dell’animale felice sarebbero così fuori dal tempo, naif, isolati dall’evoluzione umana, spettatori ad marginem.
Ma anche questa è una mezza verità perché il mito è falsificato (e anche esaltato) nella coscienza che Lei, Natura, la grande iconoclasta, immagine a se stessa, nelle sue leggi probabilmente non sa che farsene degli ammiratori delle sue immagini e preferisce piuttosto trattare con gli avversari che la pungolano, per far loro vedere quanto sa cambiare, quanto sa colpire e come sia impossibile uscirne. Forse non le interessa che i suoi ammiratori si incantino dei suoi particolari, meravigliati da dettagli meravigliosi.
Del resto l’animale resta marginale (seppure importante quanto all’uso) anche nella storia degli uomini.
Ma i suoi ammiratori, cercando di spostare solo un poco la messa a fuoco del loro sguardo, vedono anche un altro panorama: per loro l’animale è l’altro, ma è anche il prossimo e una delle forme dell’amore.
Dunque in questo forse Chatwin si sbagliava, perché questa ammirazione, pur non creando esaltanti (o diaboliche) ideologie capaci di muovere l’azione umana, non ha impedito mai l’amore per gli uomini, gli altri, i prossimi; anzi ne è stata in qualche caso la scuola.
Vorrei poi mi si mostrasse dove, proprio il “mito della bestia felice”, abbia portato ad una “anestesia morale collettiva”, non riesco ad individuare questo fatto. Quanto al piegare il collo alla tirrannide, ditemi quale “realista” è riuscito ad evitarlo, salvo divenire lui stesso il tiranno in corsa nella scala della virtù, annientatore di qualsiasi mito che non fosse il suo.
Ma scrivo come se avessi ragione di qualcosa, Chatwin in realtà ha centrato il problema, non c’è il bisogno di dimostrare il contrario. Da parte mia resto semplicemente sicuro che laddove l’animale esista e sia sano (e non in senso selettivo), sia semplicemente meraviglioso, qualsiasi animale, e che la sua forma sia felice.
Forse mi sono perso d’animo dalla nascita.
“Confusément, enfin pris à un piège de la nostalgie, il pensa que, marié avec celle-là, il serait peut-etre devenu un homme qui n’aurait connu ni la guerre ni la glorie, un artisan anonyme, un animal heureux.”