OTTOBRE '08

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“Cet attachement est peut-être pour vous ce fil presque infiniment mince dont parle Jean de la Croix, qui, aussi longtemps qu’il n’est pas rompu, tient l’oiseau à terre aussi efficacement qu,une grosse chaîne de métal. J’imagine que le dernier fil, quoique très mince, doit être le plus difficile à couper, car quand il est coupé il faut s’envoler, et cela fait peur. Mais aussi l’obligation est impérieuse.”
Simone Weil, “Lettre à J.-M. Perrin - 26 mai 1942 -”


   Gagal come Macondo: ed io sono uno dei personaggi stranieri che entrano ad un certo punto nel libro.




   Ho pensato tutta la notte ai segni di questa contraddizione (forse siamo qui per non pensare ad altro). Gli stessi paysans ci chiedono di predicare la “Prise en charge”, ma come fosse un nostro compito farlo e giammai un loro l’apprenderla. Anche il comitato per la settimana culturale di Gagal pretende ora di essere retribuito: “nessuno corre per niente.” Neanche i bambini. Come fare? Vivere questo limite come fosse un dato di fatto non è possibile. Qui seguire una propria linea d’azione non significa aver trovato o riconosciuto le regole del gioco, anzi può significare tentare di negarle. Così certo rischiamo di diventare impopolari, forse bisognerà essere più illuminati in futuro o più elastici; mi vengono alla mente tutti i volontari, i cooperanti e i religiosi conosciuti finora che se ne sono andati o se ne stanno andando via dal Tchad, sono più di quelli che sono rimasti fino alla fine, mi tornano in mente le loro ragioni. Non basta resistere, bisogna confermarla questa vita così differente, povera e in fondo, per quanto circondata di persone, solitaria.
Questa società n’gambaye sembra infatti essere dura come la laterite, possibile farla esplodere con la forza ma difficilissimo infiltrarcisi, e quanto vi si assorbe sembra venire immediatamente disperso. Pare che tutti attendano da noi un regalo, un regalo continuo come un fiume, affinchè tutti possano trarne vantaggio. Mi chiedo quale sia il modo più efficace per parlare e convincere queste persone che a volte anche le scelte più impopolari possono essere, col tempo, un “regalo” vantaggioso. ma come posso chiedere che qualcuno abbracci questa idea del futuro e se ne faccia carico (tu lo faresti al loro posto?). Come possiamo dir loro che noi non siamo qui per sperperare, che non basta essere poveri per ricevere, che bisogna cominciare a immaginare, sognare e pianificare i buoni effetti del proprio impegno? E che noi in fondo possiamo fare ben poco, che anche il nostro aiuto, se loro non sono almeno convinti del proprio progetto-lavoro, può essere poco più di una pacca sulla spalla.
Per molti lavorare il campo non è che un modo tradizionale di vivere, non è nemmeno un vero lavoro, e pare che guardino al benessere come ad un’opportunità che come la pioggia piomba dall’alto. Quindi vedendo in noi il benessere ci chiedono di aiutarli a raggiungerlo come fosse una formula magica che possediamo; non appena però raccontiamo di che lagrime grondi e di che sangue cioè di tempi, di rigore nei conti, d’indirizzo, d’impegno costante e d’immaginazione, s’intuisce immediatamente che non lo credano più possibile, perchè il modo per raggiungerlo è in effetti contrario al benessere. Si limitano allora ad ottenere da noi ciò che possono a più breve termine, di solito si accontentano del suono di una promessa. Il fatto è che intuiscono che il benessere noi non l’abbiamo ottenuto in questo modo, la nostra ricchezza, per loro, ci è caduta dall’alto, e dobbiamo donargliela così come l’abbiamo ricevuta.
Mi rendo conto che quanto sto dicendo non rende proprio giustizia a tutti coloro con cui lavoriamo, ultimamente però troppi stanno cercando di fare i furbi: chi ruba sulle sementi che deve restituire, chi viene a chiedere carità portando motivi falsi, gruppi che cambiano obiettivo a metà percorso, orecchi da mercante su condizioni ben fissate, ecc..
Io comincio a intuire il loro modo di fare e di pensare, è strano quando i pregiudizi si rivelano per lo più giusti, intuisco ormai in anticipo come si svolgono alcuni rituali: come si partecipa alle riunioni, come si pronunciano le proposte, come si prendono le decisioni e il valore che vien dato alla formalità, all'estrapolazione della promessa. Ancora non riesco, ma sarà un percorso lungo, a capire di chi fidarsi veramente.
Per quanto si cerchi d’innescare un processo di decisione partecipativo, alla fine sembra sempre che abbiamo chiesto loro di fare qualcosa in modo che loro possano otternere da noi qualcos’altro.
Si salta troppo facilmente alla conclusione che dobbiamo condurli per mano allo scopo e che il bene (materiale) debba venire da noi, difficile spiegare che accompagnare non è questo. Così talvolta arrivano a fare le cose programmate non per propria convinzione ma per assecondarci e compiacerci affinchè la ricchezza possa piovere. Talvolta se le condizioni di lavoro cui loro stessi sono arrivati, che hanno compreso e sottoscritto, si rivelano troppo faticose o difficili da organizzare, ci minacciano di non fare più nemmeno il campo o l’orto. Come se colpissero noi sul vivo. Quante volte ho dovuto dir loro “ Chi è allora che non mangia?”. Ragioniamo ancora insieme, coinvolgiamo altri attori locali.
Ci dev’essere qualche altra soluzione, qualche altro modo di mettere meglio a fuoco questo lavoro, questo scambio essenziale con loro; fino a che punto altrimenti si può accompagnare qualcuno in un processo presunto?
In un certo senso siamo ancora al punto di partenza malgrado il buon lavoro fatto dai nostri predecessori. Ma questo non mi scoraggia affatto, al contrario in questa fase di delicata tessitura sento che molte delle ragioni per cui questi contadini non sembrano capaci di gestire un desiderio o un progetto, sono le mie stesse. Prima di saper fare bisogna ben comprendere cos’è il saper fare, e poi si devono anche affilare le unghie per fare in modo che il saper fare diventi un riuscire; banale formula che non tiene conto della tremenda dolcezza di abbandonarsi e fallire, conosciuta qui come una pesante nube. Sembra che, come me, possano far tutto tranne guadagnare e riuscire e vincere.

Due somari.
Due somari.








    Ottobre. Comincia l'avventura della costruzione del magazzino a Yamba Malloum, il villaggio più vicino alla foresta protetta di Yamba berthe. Non possiamo che sperare a questo punto che tutto vada secondo i piani.


La firma del contratto.
La firma del contratto.



Il progetto del piccolo granaio.
Il progetto del piccolo granaio.



Il luogo dove verrą costruito il granaio di Yamba Malloum, e l'omonimo gruppo di contadini.
Il luogo dove verrą costruito il granaio di Yamba Malloum, e l'omonimo gruppo di contadini.



Il capovillaggio di Yamba sembra davvero un uomo di bronzo.
Il capovillaggio di Yamba sembra davvero un uomo di bronzo.





    Il mondo accetta immagini infinite, tutte le illumina e le rende possibili. Ma la mia iride si è schiarita al punto che la pagina rimane quasi bianca e qualunque segno sarebbe un refuso; mi sorprende come con l’aridità anche il tempo tenda a svenire di fianco rotolando su di un piano inclinato.

   Piantare la tenda in un deserto e aspettare la notte per Lodare – quando l’occhio sbarrato dall’insonnia m’invita a farlo, e il buio è uguale dappertutto tranne che nel cielo stellato e nel suono dei grilli – non può più portare a querelarmi per il fatto che nessuno mi ascolti, davvero non può.

   Forse solo concentrarsi sugli uomini, su Dio o su l’opera propria, sarebbe veramente levare il canto e non questo spargere a vanvera parole d’amore.



Una ranetta caduta nel lavabo.
Una ranetta caduta nel lavabo.


   Vorrei parlare come una persona guarita, anzi usare le parole per guarire e poi ritrovarmi asciutto da questo corpo fofinho. Una voce mi sussurra che la felicità è semplicemente, solo un dono. E non c’è cielo sotto il quale si possa cambiare la sorte.
Non può essere vero, la mia sensibilità certo è minata e ha perso di disinvoltura, ma è soltanto il mio ritratto di ora. Leggo di Simone Weil che ha conosciuto la condizione di schiavitù quando ha lavorato in fabbrica, che questo senso non le si è mai più staccato di dosso. Ha riconosciuto nel cristianesimo la religione degli schiavi, e fu così che Cristo la prese…






A Pala.
Una bambina del clan zakawa - lo stesso del presidente -  ma povera come gli altri.